domenica 30 marzo 2014

Sulle strade della musica italiana: dalla Torino dei Murazzi alla discografia 2.0 di domani

La Torino musicale che più mi appartiene è quella che ha acceso gli "ampli" intorno alla metà degli anni ‘90, una straordinaria fucina di idee e progetti che dalla culla sotterranea lungo il fiume, l’allora “Libera Repubblica" dei Murazzi, sono emersi travolgendo con la loro vibra contagiosa le sale da concerto e i locali che andavano via via affacciandosi sulle strade e nei luoghi di aggregazione giovanile. Dal fermento creativo di quegli anni è esplosa una scena torinese in grado di tracciare nuove rotte sulle mappe, per la verità ancora piuttosto piatte, della discografia italiana.


 Gruppi come i Subsonica e i Linea 77 in primis hanno saputo tastare il polso delle città, intercettandone i cambiamenti per poi cucirli addosso a un suono che ha fatto scuola. La punta di un iceberg formato da gruppi che hanno contribuito, ciascuno a modo suo, ad affermare l’immagine di una città nuova, musicalmente viva e dinamica come mai prima. Merito di una “visione” proiettata nel futuro, che all'ombra della Mole ha trovato linfa ed energia per crescere, farsi conoscere e in alcuni casi fare il grande passo, trasformandosi da realtà underground a fenomeno di massa. Sul finire degli anni ‘90 andavo molto distrattamente al liceo e scoprivo questi gruppi, insieme a realtà affini emerse in altre città, con entusiasmo. Ricordo un pomeriggio in cui cazzeggiando in via Garibaldi entrai per la prima volta al Cantiere Interattivo. Ne uscii con il primo glorioso disco comprato di tasca mia: “Germi” degli Afterhours, attirato oltre che dai commenti di amici che già li conoscevano – e li associavano in qualche modo alle correnti grunge provenienti da oltreoceano – anche dalla famigliola di pupazzetti psichedelici che campeggiava in copertina. All’ascolto ne rimasi folgorato e fu grazie al giro di "Pop" che iniziai a strimpellare la chitarra, anche se poi – per aggiungere un po’ di “gossip” all'aneddoto - non mi sarei evoluto granché alla chitarra. Un paio di settimane dopo ripassai di lì e tornai a casa con “Tabula Rasa Elettrificata” del C.S.I. Altro ascolto epico. Ora, si tratta di esempi di gruppi che per ovvie ragioni anagrafiche hanno tracciato un solco in cui oggi si muovono molte giovani leve. È ben noto l’impegno, purtroppo sempre compromesso dalle solite, sterili prese di posizione, che artisti come Max Casacci e Manuel Agnelli hanno dedicato alla produzione di nuovi progetti discografici e all’organizzazione di festival. Un impegno comune consolidatosi l'anno scorso nel sodalizio fra "Traffic" e "Hai Paura del Buio?". Così come il ruolo di mentore, per fare un altro esempio, che il “fedele alla linea” Giorgio Canali - ora attivo nei Rossofuoco - ha ricoperto e ricopre per giovani promettenti come Ilenia Volpe, Operaja Criminale o Margaret Lee.


Eppure, quando mi capita di sintonizzarmi sugli umori di alcuni “addetti ai lavori” o presunti tali riscontro un senso di ostilità verso coloro che in qualche modo ce l’hanno fatta, quasi fossero i responsabili di una situazione di stallo, gli artefici di un sistema che tarpa le ali a quanto circola di nuovo in giro. Trovo questa posizione fuorviante, un alibi che cela in sé quel vizietto tutto italiano del “predicare bene e razzolare male” o viceversa… per non uscire troppo dai luoghi comuni. E mi fa riflettere su dove stia oggi il vero intoppo. Si trova, ad esempio, nella mentalità di chi vorrebbe tagliare i ponti con il passato pur non conoscendolo, in nome di una “rivoluzione” che guarda con scherno e scetticismo a tutto, anche a quello che c’è di nuovo, perché questi nuovi generi che fanno i giovani sono tutta roba ridicola, inascoltabile, da bimbiminkia. Sta in chi, ad esempio, non guarda San Remo perché San Remo è roba da vecchi, ma poi è lì su Fb a sciorinare pillole di saggezza sulla cravatta di tizio e la scarpa di tizia. In chi dice che non succede mai niente, ma non perde occasione per sputare veleno, criticare o seminare zizzania tra i pochi che si danno da fare. In chi non va mai a un concerto di gruppi esordienti se non a quello degli amici  - o degli amici degli amici  - e poi si lamenta che in Italia non c’è attenzione per la musica underground come ad esempio succede a Londra o Berlino. Ma quando mai c’è stata? In chi non ascolterebbe mai quel gruppo perché è da poser finti-alternativi, ma poi te lo becchi al concerto di quel gruppo perché fa figo. In chi non ha mai ascoltato una sinfonia di Beethoven in vita sua, ma poi sta lì in piazza a chiedere con aria snob ai vicini di fare silenzio, perché la musica alta richiede concentrazione e quel brusio di sottofondo è davvero insopportabile. In chi, con fare spocchioso, parla di genii incompresi (dagli altri ovviamente, mica da lui che è più intelligente), ma che proprio perché incompresi venderanno 30 copie in tutto. Una nicchia che resterà tale per colpa del sistema commerciale e dei talent in tv. In chi dice che c’è bisogno di più anticonformismo nella musica e poi grida allo scandalo quando il cantante dei Management del Dolore Post Operatorio alza un preservativo e lo mostra al pubblico a mo’ di ostia dal palco del 1° maggio.


Insomma, in quell'atteggiamento troglodita di chi deve “essere contro” a tutti i costi per il semplice fatto che non sa bene dove stare, di chi punta sempre il dito su qualcun altro, di chi sceglie di essere “impopolare” perché nell’era del 2.0 in realtà è la scelta più "popolare". Credo che per ridare vigore alla musica ci sia bisogno di ben altro. A cominciare da un uso migliore del web 2.0, perché la discografia si è ormai smaterializzata e il modo di farla, fruirne e parlarne è cambiato. In ambito indipendente penso che il futuro debba guardare a un modello sempre più “partecipato” sia a livello di supporto e promozione, sia a livello di realizzazione discografica. Questo facendo convergere attraverso i social più contributi e idee in progetti condivisi. E ben vengano a questo proposito iniziative editoriali come We Are Our Heroes. Interessante su questo fronte anche il lavoro che stanno facendo label come la torinese INRI con Levante e Foxhound, Garrincha Dischi con L’Officina della Camomilla, MArteLabel con i succitati Management o La Tempesta, fondata dai Tre Allegri Ragazzi Morti, scuderia che vanta nomi come Andrea Appino, Teatro degli Orrori, Luci della Centrale Elettrica, Maria Antonietta, Cosmetic, Pan del Diavolo, Bachi da Pietra e molti altri.


Funzionano semplicemente perché sfruttano la rete per creare un sistema interconnesso di eventi, progetti e comunicazione. A una corrente del nuovo giornalismo musicale, in particolare a quella che si occupa di musica indipendente, critico una predisposizione allo stroncamento che non ha più ragione di essere perché appartiene all’epoca in cui si scriveva sulla base dei promo che arrivavano impacchettati in redazione o tramite e-mail a circuito chiuso. La mia domanda è: oggi che grazie alle più svariate piattaforme online si hanno possibilità di ascolto pressoché illimitate, ha ancora senso questo tipo di approccio? Per orientarsi nel mare magnum della rete non sarebbe più opportuno parlare di ciò che ci piace, lasciando perdere quello che invece non ci piace? Una domanda ingenua, lo so, se consideriamo che alle categorie di cui sopra quel tipo di giornalismo tritacarne piace un sacco. Ma credo sarebbe un utilizzo migliore del proprio tempo per tutti - per chi scrive e per chi legge - e forse varrebbe la pena rifletterci. Ai giovanissimi consiglio di immergersi in pieno nel flusso di informazioni e contenuti che circolano in rete attraverso i social, creando dei portali (siti, blog, community) che fungano da osservatorio e strumento per la diffusione dei progetti più interessanti. Perché l'utilizzo di nuove tecnologie comporta nuove responsabilità e la sfida più grande del giornalismo attraverso i nuovi media deve essere quella di offrire un’informazione sempre più veloce, ampia e "partecipata" rispetto a quella dei media tradizionali. Senza perdere il gusto della scoperta e l’entusiasmo per la musica dal vivo.