Nel suo libro “Complexity”, pubblicato
nel 1992, il giornalista scientifico Mitchell Waldrop scrive che “L’orlo del
caos è dove la vita ha trovato abbastanza stabilità per sostenersi e abbastanza
creatività per meritare il nome di vita. L’orlo del caos è dove nuove idee e
genotipi innovativi rosicchiano continuamente il bordo dello status quo, dove
anche la più radicata vecchia guardia sarà, presto o tardi, rovesciata”. Il
caos è dunque la scintilla che aizza la fiamma della creatività, l’energia che
alimenta l’ingegno e cela in sé il germe del cambiamento. Insomma, per farla
breve, ci sono buone ragioni per pensare che esista un ordine – o se preferite
un equilibrio - anche nel disordine delle cose, ma trovarlo richiede tempo,
fatica e soprattutto una buona dose di coraggio. Ma cosa c’entra – direte voi –
tutto questo col nuovo disco di Andrea Appino? Bè c’entra eccome, perché se
qualcuno nel tentativo di capirci qualcosa finisce in psicoanalisi – capendoci poi
meno di prima - qualcun altro impara a convivere con i suoi mostri per liberarli
attraverso l’arte. Niente a che vedere con l’esorcismo sia chiaro, piuttosto un
difficile processo di disintossicazione dalle paranoie e dai “falsi miti” dei tempi
in cui viviamo. Un po’ quello che ha fatto nel suo primo disco da solista
Andrea Appino: un tipo regolarmente incasinato, ma soprattutto “incasinato
bene” e con le idee ben chiare su come incasinarsi meglio. Una predisposizione
innata la sua, che dal 1994 ha trovato terreno fertile per crescere ed
esprimersi con il folk-punk-rock dissacrante degli Zen Circus e che emerge
sotto una nuova lente anche nei 14 brani de “Il Testamento”, registrati con una
big-band formata da Giulio Favero e Franz Valente de Il Teatro degli Orrori ed
Enzo Moretto degli A Toys Orchestra. Il disco segna una svolta nel percorso
artistico del cantautore pisano spostando lo sguardo dalla società alla storia
della sua famiglia. Ce ne ha parlato in questa intervista tra rock, fumetti e
religioni.
Dal live del 19 aprile all'Hiroshima di Torino (servizio fotografico a cura di Enrico Laguzzi)
Partiamo dalla title-track “Il
Testamento”: una dedica “velata” a Mario Monicelli – che peraltro citi in “Solo
gli stronzi muoiono” – per un manifesto di grande impatto sull’importanza di
scegliere. Raccontaci la genesi del brano.
Monicelli con "Il Testamento"
c'entra il giusto, il brano parla soprattutto dell'importanza della scelta,
dell'importanza di scrivere la propria storia tutta d'un fiato senza delegare a
nessuno conseguenze e meriti. Ho pensato a lui solo nel verso finale, quando la
scelta può essere anche quella di morire. Certo Monicelli si è tirato dalla
finestra d'ospedale ormai terminale e a novant'anni suonati, ma il senso è
sempre quello: prendersi le responsabilità delle proprie azioni, nel bene e nel
male per andarsene senza un solo rimpianto.
È vero che la stesura dei testi ha richiesto molto tempo ed è stata una sorta di terapia liberatoria per te?
Decisamente, è stato come andare in
analisi. Prendere pezzi della mia vita, della mia storia familiare e quella dei
miei cari a servizio di un racconto sulla propria liberazione. Troppo spesso
sento parlare di rivoluzioni quando mi rendo conto che le peggiori dittature
sono dentro le nostre sovrastrutture mentali ed emotive. Poi con gli Zen ho
scritto già due dischi che parlavano dell'Italia di oggi, "Andate tutti
affanculo" e "Nati per subire", non volevo assolutamente fare la
stessa cosa, odio farmi trovare dove gli altri se lo aspettano.
“La festa della liberazione” è secondo me
il brano più vicino allo stile Zen Circus,
in cui emerge quella poetica ironica e beffarda che in qualche modo mi
ricorda le tavole di Pazienza. Se dovessi associare la tua musica alla matita
di un artista chi sarebbe?
Ti sei già risposto da solo. Io e tutti i
miei amici d'adolescenza sembravamo usciti dai fumetti di Pazienza, Zanardi e
Penthotal su tutti. L'ho mangiato e fatto mio, come si dovrebbe sempre fare con
i maestri (Pasolini insegna).
Nel complesso comunque le atmosfere sono
più scure e il sound decisamente più rock rispetto ai lavori degli Zen Circus…
Certo, ambienti diversi, sonorità diverse.
Sarebbe stato veramente triste "simulare" gli Zen in questo disco, è
la prima cosa che mi sono imposto di non fare quando ho deciso di farlo. Poi va
anche detto che rischiavo di minare il prossimo lavoro degli Zen se non avessi fatto "Il
Testamento": avevo una gran voglia di fare questo viaggio interiore e
avrei in qualche modo "obbligato" la band a seguirmi su strade che
non interessava a tutti prendere. In questo senso sono sicuro che ci sarà
libertà assoluta per il prossimo album degli Zen. Ho detto quello che volevo e
sono pronto a mescolare di nuovo le carte.
La tua carriera è piena di collaborazioni
e anche nel tuo disco solista figurano ospiti come Rodrigo d’Erasmo degli
Afterhours e Marina Rei. Ci sono altri artisti con cui ti piacerebbe
collaborare o condividere il palco in futuro?
Non ne ho uno in particolare, capita
quando capita e sempre per motivi di amicizia e/o stima. Quindi diciamo che
aspetto che gli eventi facciano il loro corso.
C’è un brano a cui mi sono subito
affezionato: “1983”. Pensi che la generazione di trentenni di oggi sia come
quella di 30 anni fa?
Sarebbe molto presuntuoso e generalista
parlare di similitudini fra intere generazioni. Posso solo analizzare la cosa
per quello che è davvero tangibile: i miei genitori erano ragazzi negli anni di
piombo, hanno vissuto sul serio la strategia della tensione, la democrazia
cristiana al governo, l'avvento del Reaganesimo (e di conseguenza la
preparazione al Berlusconismo) hanno visto il boom economico, la
"fine" delle ideologie (gran cazzata dice sempre Ufo, visto che il
capitalismo è un'ideologia anch'esso e tutt'altro che deceduta) e chi era
un operaio più o meno impegnato politicamente si è visto sputare in faccia
dalla maggior parte dei suoi compagni che avevano nel frattempo cominciato a
comprare il tv color e il divano buono. Noi siamo diversi, siamo stati
direttamente cresciuti dalle televisioni di Berlusconi che è sceso in campo
quando avevo diciott'anni, il nostro '68 è stato a Genova 2001, nessuno di noi
vuole fare l'operaio e chi lo vuole fare accetta di tutto perché non si lavora
più. Il divano e il tv color sono diventati la tecnologia che nonostante la sua
intrinseca ed effimera libertà ci sta allontanando gli uni dagli altri ne più e
ne meno di come fece la televisione. Poi pensa alla droga, specchio della
società spesso troppo sottovalutato: la cocaina (di qualità ignobile) è
ovunque, è diventata la droga dei giovani e meno giovani, mentre per i nostri
genitori era un vezzo esclusivamente dei
ricchi che veniva anche tollerato mentre
per la strada l'eroina la faceva da padrona, certo non è scomparsa ma è
rimasta al palo, una droga per disperati o intellettuali. Insomma siamo diversi
e molto simili, ma ci accomuna una regola infrangibile: scivoleremo via
entrambi, saremo storia per un po’ e nel tempo verremo pian piano dimenticati.
Per me l'oblio è motivo di euforia perché è la natura a vincere in definitiva e
l'umanità è solo un granello di sabbia per lei. C'è chi crede in dio, io credo
nella natura.
Progetti futuri?
Il tour de "Il Testamento" sarà
molto interessante anche perché non sono mai andato in tour senza Karim ed Ufo,
qualche puntata qua e là ma niente di serio e continuativo. Insomma non vedo
l'ora di suonare con Giulio, Franz ed Enzo dal vivo. E poi a maggio si comincia
a provare il nuovo disco degli Zen, ho già scritto un po' di bella roba e
sicuramente torneremo nel 2014.